DI NUOVO IN ACQUA CON IL REBREATHER DOPO UN ANNO                                                                             

 

Vico Equense e Capri - Settembre 2022 

Era il 15 ottobre 2021, mi trovavo al largo di Villasimius, nella Sardegna meridionale ed ero sceso sul bellissimo relitto del "Valdivagna" ad oltre 70 metri di profondità. La stagione subacquea stava per terminare, ma io e mia moglie avevamo già abbozzato un ricco programma d’immersioni per l’anno successivo. Il 2022 sarebbe stato sicuramente un anno pieno di emozioni. Saremmo andati in acqua tutti i mesi da marzo a ottobre e le nostre mete erano già ben definite, Castellammare di Stabia, Ponza, Cavalaire-sur-Mer in Francia, e poi ancora Villasimius in Sardegna per una nuova "Tek Week" sui fantastici relitti.

Avevamo anche in programma di frequentare il corso di terzo livello per il rebreather, quello che ci avrebbe permesso di raggiungere "quota 100" utilizzando miscele ipossiche e di concludere un percorso di addestramento iniziato tre anni fa.

Bellissimi progetti, ma poi come un fulmine a ciel sereno è intervenuta una grave malattia di mia moglie che ci ha costretto a rivedere tutto e a cambiare le nostre priorità. In primavera Angela ha subito un intervento. E’ andato tutto bene per fortuna, ma da allora ha iniziato un lunghissimo e faticoso periodo di cura per consentirle di uscire definitivamente da questa brutta situazione.

Ci riuscirà, perché è una donna molto forte.

Ormai la subacquea è la nostra passione da più di venticinque anni. Per me, da quando ho smesso di lavorare, è diventato il mio unico interesse, quasi la ragione di vita, ma la salute è molto più importante e a volte costringe a rivedere le priorità e i propri obiettivi. Così è stato purtroppo, e il 2022 è stato un anno trascorso all’asciutto.

E così arriviamo a settembre del 2022. Sono passati undici lunghissimi mesi dalla mia ultima immersione con il rebreather. Durante l’estate, per soddisfare il mio "bisogno di acqua" ho fatto qualche breve tuffo in circuito aperto nelle acque poco profonde e quasi sempre torbide sotto casa mia, nella Riviera del Conero. Ho anche fatto due immersioni notturne sul relitto della motonave "Nicole", incappando in un paio di serate con una visibilità eccezionale per l’Adriatico.

Ricordo che mentre girovagavo tra le lamiere contorte del relitto e mi intrufolavo nella poco sicura sala macchine piena di fango fantasticavo di trovarmi su uno dei miei amati relitti profondi, ma uno sguardo al profondimetro sul mio computer mi riportava rapidamente alla realtà: 14 metri di profondità massima!

Ma torniamo a settembre.  Mia moglie, sentendosi bene e abbastanza in forze nonostante la terapia, decide di andare a trovare nostra figlia che vive in Germania da tanti anni. So che le mie due donne hanno bisogno di stare qualche giorno un po’ da sole e penso che la cosa migliore sia che Angela vada a Berlino da sola. Ma io che cosa faccio una settimana a casa da solo?

Mia moglie non ha dubbi e mi dice «Vai a Castellammare e fatti un po’ di immersioni». All’inizio sono un po’ riluttante. Da un lato l’idea mi alletta parecchio, anche per l’opportunità di riabbracciare tanti cari amici che non vedo da quasi un anno; dall’altro però l’idea d’immergermi con il rebreather dopo così tanto tempo senza la mia abituale compagna un po’ mi preoccupa. Decido di rinviare la decisione all’ultimo momento.

Nel frattempo però tiro fuori i manuali del mio rebreather e soprattutto i preziosi appunti presi durante i corsi di Aldo Ferrucci che ho frequentato negli anni scorsi. Ricomincio a studiare e faccio manutenzione alla mia macchina. Mi fa persino rabbia dover buttare via costosi sensori di ossigeno inutilizzati e doverli sostituire con dei nuovi. Ripasso bene le varie procedure di sicurezza e mi rendo conto di non aver dimenticato tutta la teoria. Sicuramente ho perso certi automatismi nella pratica, ma questi ritorneranno (spero), man mano che m’immergerò. Così alla fine decido di partire.

Accompagno mia moglie al treno che la porterà in aeroporto e mi metto in viaggio verso Castellammare di Stabia con il mio "Scuba Van" (il furgoncino Ford che utilizzo per i miei viaggi subacquei).

Durante quei 400 km che mi conducono a Castellammare, che ho percorso tante volte, penso al momento in cui finalmente ritornerò in acqua e non mi vergogno a confessare che mi sento abbastanza teso e preoccupato. Il rebreather è un giocattolino delicato gestito elettronicamente ed è piuttosto complicato. La sua preparazione dev’essere precisa e scrupolosa e la sua gestione in acqua, a cominciare dall’assetto, è molto diversa da quando si scende in circuito aperto.

Arrivato al Marina di Stabia, il porticciolo turistico all’interno del quale si trova il Bikini Diving del mio amico fraterno Pasquale Manzi, mi sento come se fossi ritornato a casa. Sono davvero tante le volte che io e mia moglie siamo venuti in questo posto che frequentiamo da una decina di anni. Qui ci sono così tanti cari amici da riabbracciare, che questa ormai è diventata veramente la nostra seconda casa.

Scarico la mia attrezzatura dal furgone (accidenti quanta roba anche se sono da solo!), saluto gli amici e vado a prendere possesso della mia solita camera nella vicina Pompei.

Una buona cena in uno dei miei ristoranti preferiti, dove rivedo con piacere il titolare e lo chef che sono miei buoni amici, e poi filo di corsa a letto, cercando di riposare in vista della giornata di mare che mi aspetta all’indomani.

La mattina seguente mi presento di buon’ora al diving e comincio a preparare la mia macchina per l’immersione. Seguo scrupolosamente la check-list dei controlli ("closed check") e ripasso mentalmente gli insegnamenti di Aldo Ferrucci, il mio Maestro, rendendomi conto di averli ormai assimilati. Mi accorgo che sono semplicemente un po’ più lento nella procedura rispetto allo scorso anno, ma tutto mi è molto chiaro e ne sono soddisfatto.

Poi finalmente ci s’imbarca sul gommone e si parte in direzione del Banco di Santa Croce.

E’ un mercoledì e non ci sono molti subacquei a bordo. Pasquale però ha deciso che sarà il mio angelo custode. Mi starà accanto. Vuole vedere come si comporta in acqua questo "vecchietto" dopo un anno che non s’immerge con il rebreather.

 

Arrivati alla boa di ormeggio indosso il mio rebreather, faccio gli ultimi controlli pre-immersione, completo il riscaldamento dei filtri dell’anidride carbonica e finalmente arriva il momento della discesa in mare, nelle acque amiche e familiari dell’amato Banco di Santa Croce.

Do il segnale di ok. Mi tuffo all’indietro come ho fatto mille volte. Una volta in acqua aggancio la bombola di bailout alla mia imbracatura e mi lascio avvolgere dall’acqua, l’elemento che amo di più, poi scendo giù nel silenzio assoluto.

Lentamente arrivo a 18 metri alla fine del pedagno ancorato sulla secca principale. La discesa è stata semplice, nessun problema a prendere il giusto ritmo respiratorio, un buon assetto neutro, consumi di gas normali. Tutto procede bene e sono tranquillo e soddisfatto. Inizio a nuotare e man mano che passa il tempo provo una sensazione di benessere, un piacere sottile che avevo quasi dimenticato.

Scendiamo dalla secca principale e ci dirigiamo verso la sabbia nella zona nella quale di solito si trovano i pesci San Pietro. In breve arriviamo a 43 metri di profondità, ma i San Pietro non si fanno vedere, in compenso ammiriamo una grossa aragosta che passeggia fuori dalla sua tana per farsi fotografare.

Il mio amico Pasquale mi controlla discretamente, e di tanto in tanto mi chiede a gesti se è tutto ok. Questo mi ha dato quella sicurezza in più della quale in fondo non avrei avuto nemmeno bisogno, ma lo ringrazio lo stesso per la sua pazienza e disponibilità. Le amicizie "vere" durano anche se passa molto tempo senza potersi vedere, e Pasquale è veramente un carissimo amico di lunga data.

Risaliamo un po’ di quota e giriamo intorno allo scoglio della secca principale, poi "saltiamo" dall’altra parte atterrando sul cappello della secca di terra, dove ci accoglie un tripudio di cernie e dentici di grosse dimensioni.

Qui nulla è cambiato dopo un anno. Chissà se le grosse cernie brune che mi nuotano intorno curiose sono ancora le stesse?

Mi sento bene. L’ansia e le preoccupazioni del mattino si sono disciolte nell’elemento liquido e adesso provo una sensazione di benessere. Sono nella mia comfort zone. Finalmente mi sono riconciliato con il mio elemento… l’acqua.

Approfittando del fatto che il rebreather non produce né rumore né bolle mi infilo dentro ad un banco di salpe dorate, intente a brucare la sommità della secca. Per un attimo mi sento veramente pesce tra i pesci, ed è una sensazione bellissima che non assaporavo da troppo tempo.

La nostra immersione finisce sul cappello della secca principale a 10 metri. Appena un’ora d’immersione e neanche un minuto di deco, ma va bene così. L’importante per me era ricominciare, prendere di nuovo confidenza con il rebreather, e sono stato benissimo.

Nei giorni successivi ho fatto altri tre tuffi sul Banco di Santa Croce, insieme a diversi amici che si immergono in circuito aperto, ma perlopiù da solo, per ritrovare quel feeling, quella confidenza e quella tranquillità necessarie per immergermi in sicurezza.

Tutto è filato liscio e pian piano ho ripreso fiducia in me e ho superato i timori che avevo alla vigilia di questa inaspettata settimana d’immersioni che mi ha regalato mia moglie. Del resto le paure fanno parte della natura umana. Superarle, oltre che rafforzare la propria autostima, dà anche una bella carica e una bella soddisfazione.

Sabato, domenica e lunedì, come ho già detto, faccio tre immersioni di un’ora, gironzolando tra le secche del Banco tra i 40 e i 50 metri di profondità. C’è tantissimo pesce, la visibilità sul fondo è discreta, il mare generalmente è buono (salvo un tuffo fatto con una corrente veramente impetuosa) e poi, controllando il mio log book mi accorgo a posteriori di aver fatto la mia trecentesima immersione sul Banco di Santa Croce. Ovviamente la sera a cena con gli amici la festeggio con una buona bottiglia di Prosecco… ogni scusa è buona per bere in compagnia degli amici.

E così arriva il giorno prima del mio ritorno a casa e… sorpresa: Pasquale ha in programma un’immersione sul famoso traliccio di Capri. E’ un’immersione impegnativa, ma come posso perdere una simile opportunità?

Per telefono mia moglie Angela dalla Germania mi "autorizza" a fermarmi a Castellammare un giorno in più, anzi mi spinge a cogliere l’occasione di fare questo bellissimo tuffo. Lei si arrangerà, e per tornare a casa dalla stazione prenderà un autobus o un taxi.

Con la sua "benedizione" non ho più alibi per rifiutare l’immersione a Capri. E così decido di fermarmi a Castellammare e di partecipare. Sarà la prova per vedere se ho veramente ripreso piena confidenza con il mio rebreather.

 

Martedì 20 settembre partiamo dal Marina di Stabia con il grosso gommone di Pasquale e in meno di un’ora raggiungiamo il faro di Punta Carena, sull’estrema propaggine meridionale dell’isola di Capri. A bordo ci sono dieci subacquei, tutti equipaggiati con bibombola e bombola decompressiva. Soltanto io scenderò con il rebreather e due bombole di bailout (una miscela di fondo normossica e un nitrox 50 per la decompressione).

Indossare questa pesante attrezzatura dopo le immersioni in Sardegna di un anno fa non mi dà problemi. In acqua le due bombole di bailout attaccate di fianco non pesano nulla, si sa.

Pasquale per sicurezza rimane a bordo del gommone in movimento. Il fondale qui sotto supera i 60 metri e non si può ancorare, inoltre il gommone in movimento, posizionato tra noi e la parete dell’isola ci fa da scudo, proteggendoci dal grande traffico di barche cariche di turisti che fanno il giro dell’isola per andare alla Grotta Azzurra.

Finiti i controlli di routine mi tuffo in acqua con la capovolta. Aggancio i miei due bailout ai fianchi e inizio la discesa in libera nel blu. L’acqua di Capri è famosa per la sua limpidezza, e anche oggi non si smentisce. Vedo distintamente i miei compagni d’immersione che scendono molto più veloci di me e sono già una quindicina di metri più in basso. Senza alcuna agitazione continuo a scendere lentamente e li raggiungo in vista del traliccio, sul quale plano dolcemente dopo circa tre minuti.

Sono già stato diverse volte in questo bel sito d’immersione, ma ogni volta la varietà dei colori e della flora attaccata sulla struttura metallica del traliccio mi sorprende come se fosse la prima volta che la vedo. E’ incredibile come la natura si sia impadronita di questo pezzo di ferro arrugginito e l’abbia fatto suo, ricoprendolo di gorgonie colorate e di ogni forma di coralligeno.

Pian piano arrivo all’estremità più profonda del traliccio, a 63 metri di profondità. Più in là si vede solo una distesa di sabbia che precipita nel blu più scuro raggiungendo profondità molto elevate.

Il computer sul polso mi indica i primi minuti di deco alle tappe più profonde, prima 12, poi 9 metri. Do un’occhiata ai miei due manometri del’ossigeno e del diluente, ma non c’è alcun problema: la scorta di gas è più che sufficiente e posso godermi la mia immersione in estrema tranquillità. Il bello del rebreather a circuito chiuso è proprio questo. Riciclando il gas espirato e iniettando nel circuito il poco ossigeno necessario a rimpiazzare quello metabolizzato, consente un’autonomia assolutamente impensabile respirando in circuito aperto.

Mentre attorno a me nuota una nuvola di delicati anthias rosa, continuo ad osservare la struttura del traliccio interamente colonizzata da varie forme di vita multicolori. La illumino con la mia potente torcia e ne colgo ogni particolare, aiutato dalla miscela ricca di elio che sto respirando. L’elio che sostituisce in parte l’azoto presente nell’aria mi consente la massima lucidità pur essendo a sessanta metri di profondità, soggetto ad una pressione di 7 atmosfere.

 

 

La sotto il tempo scorre veloce e i miei compagni in circuito aperto cominciano a risalire. Devo farlo anch’io se non voglio costringerli a restare in acqua per un sacco di tempo ad aspettare che io finisca la mia decompressione.

Nuoto lentamente mantenendomi sopra la struttura del traliccio che giace inclinato sul fondale e raggiungo la sua estremità superiore a una cinquantina di metri.

Poi seguo il gruppo dei subacquei che risale lungo la coloratissima parete. Man mano che salgo inizio a desaturarmi. Debbo fare circa 25 minuti di decompressione,  ma ci sono molte cose da vedere lungo la parete, e questo la rende meno noiosa. Arrivati in una piccola insenatura dove siamo abbastanza riparati dal traffico di barche, ci fermiamo per la nostra tappa decompressiva dei 6 metri, molto più lunga delle precedenti, e aspettiamo pazientemente nell’acqua ormai tiepida.

Dopo poco più di un’ora termino il mio tuffo e raggiungo a nuoto il gommone di Pasquale. Mentre eravamo immersi si è alzato un po’ il mare e con un po’ di onda la risalita è più complicata, ma sganciando le bombole dai fianchi e passandole a Pasquale prima di risalire poco dopo siamo tutti a bordo seduti sui tubolari, con ancora negli occhi lo spettacolo che abbiamo visto laggiù.

Sulla via del ritorno è doveroso un passaggio in mezzo ai Faraglioni per scattare qualche foto, poi voliamo sulle onde a 25 nodi fino al Marina di Stabia, dove finisce la nostra bella giornata di mare e con essa anche la mia settimana di immersioni.

Insomma, il mio rientro nel "mondo del silenzio" dopo un anno difficile è stato assolutamente positivo e adesso spero soltanto di non dover aspettare ancora troppo tempo prima di potermi immergere di nuovo.

Un ringraziamento particolare per le belle foto subacquee va agli amici Raffaele Galli e Antonella Savarese, miei compagni d'immersione.

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