IL RELITTO DEL "POTHO" - SIROLO (AN)

di Marcello Polacchini (grazie ala documentazione raccolta da Amedeo Spadari, che ringrazio sentitamente)

 

A testimonianza di ciò che vado sempre ripetendo a chi mi chiede il perché del mio amore per i relitti, ecco la storia di un relitto “minore”, ormai ridotto a pochi pezzi di lamiera arrugginita sparsi sul basso fondale antistante il Monte Conero. Si tratta di pochi “pezzi di ferro” che hanno comunque una storia drammatica, da raccontare a chi la voglia ascoltare…

 

La storia del naufragio del "POTHO" - 14/15 marzo 1962

 

Nella notte del 14 marzo 1962, durante una tempesta di neve e di vento, il piroscafo da carico "Potho" naufragò a ridosso del monte Conero andando a cozzare contro gli scogli delle "Due Sorelle" e squarciandosi in due tronconi. La parte di prua finì sulla spiaggia della "Cava Davanzali", mentre l’altro troncone affondò a fianco dei faraglioni. I marinai  superstiti restarono  aggrappati per diverse ore al troncone di prua  prima di essere tratti in salvo.

Il cargo, che batteva bandiera libanese, era carico di tavole di legno. La spiaggia Urbani, che si trova proprio sotto a Sirolo, venne letteralmente sommersa da una catasta di legname, in alcuni punti alta tre metri. Alcuni sirolesi, increduli davanti alla spaventosa tragedia, si affollarono sulla spiaggia e dopo aver acceso un fuoco con alcuni pezzi di legname si riscaldarono in quel gelido 15 marzo 1962. Molto del legname in seguito venne raccolto e fu impiegato per costruire le baracche dei pescatori della zona.

L’equipaggio della nave naufragata era composto di 21 marinai di nazionalità greca; di questi 11 furono tratti in salvo, ma 10 scomparvero tra i flutti del mare che poi ne restituì solo una parte. Il corpo di uno di loro fu trovato nei pressi della Grotta Urbani, altri due furono ritrovati lungo il tratto di costa tra Sirolo e Numana e uno addirittura sulla costa di Ortona.
Una delle vittime è sepolta nel cimitero di Numana. Una croce con scritto "Persona Ignota" e la data del naufragio la ricordano ai visitatori per una preghiera. Altre due vittime sono sepolte nel cimitero di Sirolo.

Secondo le testimonianze, Raimondo Barbadoro, un invalido che faceva il guardiano della cava di pietra di Cesare Davanzali situata nella piccola baia proprio a nord delle Due Sorelle, fu il primo ad accorgersi del naufragio e andò a chiedere aiuto a suo fratello Cesare. Cesare Barbadoro assieme ai suoi due nipoti raggiunse la spiaggia della cava e riuscì a trarre in salvo molti marinai. A tarda sera del 15 marzo sul relitto rimaneva ancora il direttore di macchina, un uomo di corporatura pesante e già vicino alla sessantina. Quando finalmente si decise ad abbandonare la nave e si buttò in mare Cesare lo vide restare immobile nell’acqua gelida. Barbadoro non ci pensò su tanto, si gettò in mare, lo raggiunse e si accorse che era rimasto impigliato in un cavo. Lo liberò e, con l‘aiuto di un’onda più benigna delle altre, lo portò a riva sano e salvo nonostante le numerose ferite riportate. La mattina dopo, a giorno inoltrato, giunsero finalmente i soccorritori. La fila degli scampati al naufragio riuscì a risalire il monte Conero attraverso il "Passo del Lupo" pieno di neve e giunse a Sirolo, dove trovò ristoro in un albergo. Invece, il direttore di macchina ferito venne trasportato all’ospedale di Ancona via mare. Così si concluse la commovente pagina di coraggio e di abnegazione scritta da Raimondo e Cesare Barbadoro. Quest’ultimo per il suo coraggio fu insignito della Medaglia di Bronzo al valor civile.

Il troncone della prua del cargo, spiaggiato vicino agli scogli delle Due Sorelle, visto dall'alto del Monte Conero.

 

Le caratteristiche della nave

 

Nome: "Potho"

Tipo: nave da carico

Anno di costruzione: 1916

Cantiere: A.Vuijk & Zonen - Capelle (Olanda)

Armatore: Pothos Shipping Co. - Beirut (N. J. Nomikos) Libano

Nazionalità: libanese

Stazza lorda: 1.800 tonnellate

Stazza netta: 1.118 tonnellate

Portata lorda: 3.250 tonnellate

Lunghezza: 89,20 metri

Larghezza: 12,25 metri

Apparato motore: 1 macchina a vapore a triplice espansione

Potenza (indicativa): 30.000 HP

Eliche: 1 quadripala, diametro 4 m.

Velocità max: 15 nodi

Equipaggio: 21 uomini

Stive: 3 da 60 m³ ciascuna

Data affondamento: 14 marzo 1962

Profondità max: 13 m.  su fondale di ghiaia

Posizione: Lat. 43°32'53''N  Long. 13°37'40''E

 

Curiosità: Il significato del nome greco "Potho" o "Pothos" è desiderio, uno dei tre volti dell'amore, assieme alla passione del momento (Himeros) e all'amore corrisposto (Anteros).Nella mitologia greca Pothos era il fratello di Eros e Himeros ed era il  presunto figlio di Crono e di Afrodite.

 

 

Il troncone di prua della nave sulla spiaggia davanti alla Cava Davanzali.  

La prua della nave in un'immagine del 16 marzo 1062. Si vede ancora bene il nome "Potho" impresso sul mascone.

Alcune immagini del carico di tavole di legno disperso sulla spiaggia di Sirolo all'indomani del naufragio.

L'immersione sul relitto del "Potho"

 

Sul fondale antistante i faraglioni delle "Due Sorelle" disseminati tra i 7 e i 14 metri di profondità, si trovano i resti del mercantile “Potho”, affondato nel 1962 in seguito all’urto con gli scogli avvenuto durante una  notte di tempesta.

Oggi, a distanza di tanti anni dal naufragio, le lamiere e le porzioni superstiti della nave si sono integrate perfettamente con la vita di scogliera. Lo scafo è completamente distrutto, ma si possono vedere alcune parti ancora integre delle due caldaie, una adagiata in assetto di navigazione, l’altra in verticale e il processo di colonizzazione ha reso lo spettacolo che si apre davanti agli occhi del subacqueo ancora più affascinante. Capita spesso di incontrare banchi di novellame che si disperdono al passaggio di piccole ricciole (Seriola dumerili) o delle corvine (Sciaena umbra). Le superfici verticali ospitano mitili, spugne e numerosi antozoi come l’irritante Anemonia sulcata o l’affascinante Alcyonium palmatum e ci sono anche bellissimi spirografi dai delicati pennacchi. Sotto alle lamiere è possibile scorgere con un po’ di fortuna il prelibato astice (Homarus gammarus). Singolare è l’utilizzo che un gronco stanziale (Conger conger) ha saputo fare della caldaia della nave: i numerosi fori che servivano per lo scambio del calore sono divenuti l’ideale rifugio per questo timido pesce anguilliforme. Sul fondo sabbioso nuotano banchi di triglie (Mullus surmeletus), costantemente indaffarate a smuovere la sabbia con i loro bargigli alla ricerca di cibo. Le zone più riparate del relitto ospitano numerose colonie di idrozoi, di antozoi e gamberetti. Di fianco al relitto tra i resti del fasciame si riconoscono l’albero, i verricelli e un’elica di grandi dimensioni ancora integra e adagiata sul fondo.

Un'immersione tutto sommato semplice ma interessante, che, nei giorni in cui la visibilità lo consente, offre agli appassionati anche dei buoni scorci fotografici.

La caldaia per produrre il vapore. Si notino i tubi e i fori per gli  scambiatori di calore, oggi tane per i gronghi.

Relitto del "Potho". Particolare. Si noti la fittissima colonizzazione di ostriche e mitili sulle lamiere.

L'elica quadripala delle dimensioni di 4 metri di diametro interamente ricoperta dai mitili. Si noti il foro quadrato del mozzo.

Il libro curato da B. Bambozzi cre raccoglie la testimonianza di Cesare Barbadoro sul naufragio del cargo "Potho" nel 1962.

Una testimonianza diretta sul naufragio del cargo "POTHO"

In un opuscolo, pubblicato nel 1997 a cura di Bruno Bambozzi, con la partecipazione del Comune di Sirolo, del Circolo Pesca Sportiva Conero e del Circolo Culturale Sirolese, è narrato il naufragio del cargo "Potho" e il salvataggio dei superstiti  in tutta la sua drammaticità, e c’è la testimonianza di Cesare Barbadoro, detto  "Cesarì ", l'eroe sirolese, insignito della Medaglia di Bronzo al valore civile.

"Durante la notte del 14 marzo del 1962 - mentre infuriava un terribile fortunale con vento impetuoso da Greco e Tramontana che soffiava alla velocità di oltre 100 km/h e con mare forza 8 - un cargo libanese di circa 8.000 tonnellate pieno di legnami e con a bordo 21 marinai di origine greca, dopo aver perso il controllo delle macchine, fu spinto a riva dalla corrente sino a schiantarsi contro gli scogli delle "Due Sorelle".
Nel pieno della notte, urla, lamenti, frastuoni di lamiere e legnami, svegliarono mio fratello, Raimondo, guardiano notturno della cava di pietra sottomonte di Cesare Davanzali. Nell'oscurità Raimondo non riuscì a rendersi conto di quanto stava accadendo. Attese che si facesse giorno e alle prime luci, dinanzi ai suoi occhi si presentò uno spettacolo terrificante. Una nave da trasporto, piena di tavolame, si era incagliata tra gli scogli delle "Due Sorelle", squarciandosi in due tronconi. Parte degli uomini a bordo era rimasta nella torre di comando, parte allo scoperto a prua.
Raimondo, invalido di guerra, date le sue precarie condizioni, non era in grado di portare loro alcun aiuto. Esitò per un attimo sul da farsi, poi in fretta, zoppicando, sotto una pioggia incessante, risalì per il Passo della Croce, oggi conosciuto come "Passo del Lupo", che porta dalla spiaggia delle Velare alla sommità del monte.
Verso le otto del mattino, esausto, giunse a casa del fratello Cesare che informò dell'accaduto. Cesare, senza neppure attendere che qualcuno l'accompagnasse, velocemente si incamminò verso il luogo del disastro; poco dopo lo seguirono i nipoti Fernando e Franco.
Nel frattempo le condizioni erano peggiorate; nevicava a dirotto. Giunto alla cava vide, stretti l'uno all'altro, tre uomini rifugiati sotto un grottino. Si avviò verso di loro, erano semi assiderati, negli occhi si intravvedevano segni di terrore e spavento, ma anche di speranza; fu una scena sconvolgente. Cesare li invitò a seguirlo nel piccolo rifugio della cava, accese subito il fuoco in una stufa di ferro, usando del carbone, che grazie a Dio c'era in abbondanza e li fece riscaldare mentre asciugavano quei brandelli degli abiti che avevano ancora indosso. "Fuori", mi disse Cesare, rivivendo quell'indescrivibile spettacolo, "dove mi giravo era un finimondo, le onde erano alte 4 o 5 metri, il vento tagliava la faccia, la neve, insolita in quel periodo, cadeva fitta a grandi fiocchi, il cargo si stava disgregando e il tavolame, trasportato dalle onde come fuscelli, aveva invaso tutta la spiaggia; i marinai che erano rimasti allo scoperto nel troncone di prua, a squarcia gola chiedevano aiuto, mentre la torre di comando, staccatasi, si inclinava sempre più sul mare".

Verso le ore 10, la torre di comando si spezzò; il comandante e gli altri marinai, che lì erano rifugiati, in pochi secondi, scomparvero tra il tavolame e l'impeto delle onde; Cesare riuscì a vederne uno, il marconista, aveva il corpo stretto tra alcune palanche, di tanto in tanto ne scorgeva la testa, stava per essere strangolato, ancora qualche attimo di attesa e sarebbe stata la fine. Con indescrivibile coraggio, rischiando la propria vita, prese un'ascia, riuscì a spezzare il tavolame che stava soffocando il marconista, sino a liberarlo e tirarlo a terra con l'aiuto dei suoi nipoti e dei marinai che si erano salvati.

Il comandante della nave e gli altri otto marinai che stavano sul ponte invece scomparvero tra le onde. Per Cesare e i suoi nipoti furono attimi di disperazione, avevano bisogno di altri uomini che li aiutassero. Non rimaneva altro da fare che risalire il monte e chiedere l'intervento dei Carabinieri, delle Guardie di Finanza e di qualche volontario.
La risalita era divenuta difficile e pericolosa per la caduta della neve, che in alcuni punti aveva raggiunto i 50 centimetri. Cesare lasciò i nipoti nel rifugio con i marinai ed intraprese il cammino da solo. Arrivato a casa, completamente bagnato e sfinito per la dura e pericolosa marcia sulla neve, fece avvertire dai suoi le autorità e quanti avessero potuto aiutarlo. Purtroppo, dato il pessimo tempo che imperversava e la bufera di neve che non cessava né finanzieri né carabinieri, né volontari nel pomeriggio si avventurarono a prestare soccorso a chi stava tra la vita e la morte. Per l'impraticabilità del mare burrascoso e delle strade innevate a tratti inaccessibili, anche gli aiuti chiesti alla Questura, alla Capitaneria di Porto di Ancona ed al Comando dei Carabinieri di Osimo non furono possibili per affrontare quell'imprevedibile emergenza. Solo Cesare dopo avere preso tutto ciò che aveva in casa, pane, salsicce ed un bottiglione di caffè, munitosi di una pala indispensabile per la discesa, ritornò alla cava da coloro che lo attendevano. Erano circa le 15, quando arrivò al rifugio. Il vento per fortuna cominciava a bonazzare. All'imbrunire, approfittando della calma del mare che segue o precede due onde forti, i sette marinai che erano rimasti a bordo nel troncone di prua della nave incagliata a circa 12 metri dalla riva, si buttarono in acqua rischiando il tutto per tutto tra i micidiali scogli.
I più erano uomini forti, che conoscevano le insidie del mare, di fronte al quale non cedettero ma lottarono tenacemente fino a raggiungere a nuoto la riva dove Cesare e i suoi nipoti li attendevano per aiutarli a venire fuori dalle acque gelide e a risalire la scoscesa ed alta battigia sino alla spiaggia sicura. Solo il macchinista di bordo, uomo anziano e pesante, che si era buttato per ultimo dai resti della nave, fu travolto dal mare verso il costone pietroso della spiaggia. Cesare immediatamente avvertì la gravità del pericolo e si precipitò verso lo sfortunato. Approfittando di un'onda favorevole e con tutta la forza che disponeva riuscì a tirarlo fuori da quelle acque infernali.
Per metterlo al sicuro, ricorse all'aiuto dei nipoti e di alcuni marinai. Purtroppo il povero macchinista s'era ferito in più parti del corpo e non era in condizione di muoversi. Con cura fu portato dentro il rifugio e posto sulla brandina del guardiano notturno della cava. Gli prestarono le prime cure con quanto avevano a disposizione. Il salvataggio del macchinista ha qualcosa di miracoloso. Cesare ancora oggi come allora, ricorda tutti i particolari di quella storia indimenticabile e continuando il suo racconto mi precisò: "Per tutta la notte rimasi nel rifugio insieme ai nipoti e ai naufraghi. Fu una notte lunghissima, piena di racconti e di attese nella speranza di vedere ancora qualche altro scampato uscire fuori dalle onde".
Anche se con difficoltà riuscivano a farsi capire; un po' di italiano lo parlavano tutti. Continuamente chiedevano della sorte del loro comandante e degli altri uomini rimasti sul ponte di comando. Purtroppo il loro destino era stato segnato. Le lamiere e l'immensa massa di tavolame galleggiante li aveva stretti in una morsa dalle proporzioni gigantesche senza possibilità di scampo, trasportandoli poi a notevoli distanze. Di ora in ora per mancanza di viveri ed indumenti, le sofferenze degli scampati si accrescevano sempre più; con preoccupazione si attendevano gli aiuti.
Sembrava che l'alba tardasse a venire ed il tempo non passava mai; poi nelle prime ore del giorno si udirono delle voci. Erano quasi le sette del mattino quando giunsero i soccorritori; con quasi un giorno di ritardo, volle precisarmi Cesare.
Erano in tutto 15 volontari, per la massima parte cavatori di pietra, oltre al vice brigadiere dell'arma dei Carabinieri: Alfredo Cavaliere. Dopo un pò giungeva anche Mario Breccia, anch'egli operaio della ditta Davanzali, per dare il cambio a Cesare nell'assistenza del macchinista gravemente ferito.
L'incontro tra gli scampati, irriconoscibili per le sofferenze e per lo stato in cui erano ridotti, e i soccorritori, fu commovente; nel silenzio la forza dell'amore umano ben presto li fece fraternizzare gli uni agli altri. All'appello erano presenti solo undici marinai come venne poi documentato dal fonogramma che il vice brigadiere Alfredo Cavaliere inviò alla Prefettura di Ancona ed alla Tenenza dei Carabinieri di Ancona. In fretta, fatti vestire alla meglio i seminudi, rifocillati gli sfiniti dalla fame, con quel poco che i soccorritori disponevano, fu organizzata la risalita del monte, per il ripido e pericoloso passo.
Distese alcune funi, i naufraghi alternati dai volontari furono fatti aggrappare alle stesse per evitare scivolamenti e cadute. Dopo qualche minuto di sosta tutta la squadra riprese il cammino faticoso; difficilissimo in alcuni tratti, per il manto nevoso che aveva oltrepassato i 50 centimetri, arrivati presso l'abitazione di Stacchiotti ricevettero indumenti da indossare nonché bevande e cibo per ristorarsi. Dopo più di un'ora i marinai e i volontari giunsero a Sirolo. Nel pomeriggio la Capitaneria di Porto di Ancona, inviò una motovedetta alle Velare per provvedere al trasporto all'ospedale del pesante macchinista ferito che giaceva nel rifugio.
Nello stesso giorno, dalla Marina Militare, furono intraprese a largo raggio le ricerche in mare dei dieci dispersi, ma purtroppo non diedero alcun risultato. Dopo tre giorni dall'ex Sindaco di Sirolo, Alberto Volpini, fu recuperato il corpo di un disperso, tra gli scogli in prossimità della Grotta Urbani. Nei giorni successivi, altri due corpi, trasportati dalla corrente, furono trovati lungo la costa tra Sirolo e Numana ed uno addirittura in prossimità della spiaggia di Ortona.

Con questa ultima straziante descrizione Cesare Barbadoro concluse il suo racconto ed a testimonianza di quanto detto mi consegnò una copia dell'attestato di benemerenza che gli conferiva la medaglia di bronzo al valore civile."

    

 

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