Il relitto del “Lillois” - Scalea (CS)

La storia del vapore "Lillois"

 

La discesa su di un relitto è sempre un'esperienza affascinante, forse per quell’alone di mistero che avvolge ogni nave affondata e per la storia che ogni relitto può raccontare. Quella del “Lillois”, piroscafo francese affondato durante l’ultima guerra da un sommergibile inglese al largo di Scalea, sulla costa calabra che si affaccia sul Tirreno, è certamente una storia interessante.

Si tratta di una nave da trasporto a vapore, lunga 106,5 m. e larga 14 m., di 3.681 tsl., costruita in Inghilterra nei cantieri C. Connel & Co. per la Compagnie Des Bateaux à Vapeur du Nord. Il vapore fu varato nel 1910 con il nome di “Student” e, in seguito, passò sotto bandiera francese e prese il nome di “Lillois”.

Durante la Seconda Guerra mondiale la nave divenne preda bellica degli alleati italo-tedeschi e, il 28 marzo 1943, fu affondata a circa 2 mg. al largo di Scalea, esattamente nel puto a 39°05’ N e 15°46’ E. Colpita da un siluro lanciato dal “H.M.S. Torbay”, sommergibile britannico della “classe T” varato nel 1940, che si trovava al comando del Lt. Robert Clutterbuck, la nave colò rapidamete a picco su un fondale di una sessantina di metri.

Quello del "Lillois" è uno dei tanti relitti che si trovano nel tratto del Mar Tirreno che va da Praia a Mare sino ad Amantea: un vero e proprio cimitero navale della Seconda guerra Mondiale. In questo vasto tratto di mare, dall’immediato sottocosta a circa 2 mg. di distanza dalla costa, si trovano i relitti di parecchie navi, di chiatte da sbarco e imbarcazioni di piccola stazza, che furono affondate dai sommergibili inglesi che in quegli anni pattugliavano la costa con l’ordine di silurare qualunque imbarcazione navigasse in quelle acque. Infatti, il governo britannico era convinto che molte delle navi che transitavano lungo quella direttrice trasportassero non solo il carico dichiarato ufficialmente, ma anche armamenti e munizioni destinate alle truppe dell’alleanza italo-tedesca.

Scoperta da un fotografo di Praia, appassionato di immersioni, la nave fu successivamente identificata dai subacquei del centro immersioni "Dinosub" di Giorgio Chiappetta, i quali svolsero le ricerche storiche necessarie a ricostruire la storia e le vicende che portarono all'affondamento nel marzo del ’43.

Oggi il relitto della nave, che giace intera e in assetto di navigazione, su un fondale fangoso che degrada fino ad oltre 60 metri, è divenuta una delle mete abituali di immersione del diving "Dinosub", che si trova poco più a nord di Scalea proprio sulla spiaggia antistante all’Isola di Dino, ad appena una ventina di minuti di navigazione dal relitto.

La mia immersione del 16 agosto 2006 sul relitto del "Lillois"

Mi trovo con mia moglie Angela a Praia a Mare, in provincia di Cosenza, per le consuete vacanze subacquee, che, ormai, per me sono divenute una tradizione negli ultimi dieci anni, da quando ho incominciato ad immergermi. Il tempo non è stato particolarmente clemente negli ultimi giorni: un vento ed un mare fastidioso ci hanno costretto a limitare le nostre immersioni al versante nord ed alla punta ovest dell’Isola di Dino, dove possiamo avere un maggior ridosso dalle onde.

Il giorno dopo ferragosto, dopo una decina di giorni di immersioni condizionate dal mare piuttosto formato, causato dal vento proveniente dal terzo quadrante, arriva finalmente il giorno della tanto attesa immersione sul relitto di Scalea. Nettuno si è finalmente schierato dalla nostra parte e ci regala una bellissima giornata di sole, con mare calmo e cielo limpidissimo.

Partiamo dalla spiaggia davanti al diving "Dinosub" - che si trova proprio di fronte all’Isola di Dino - verso le 10:30 di mattina e il nuovissimo gommone BWA di 7,40 metri si dirige velocemente verso sud, portandoci al largo di Capo Scalea

Il carico di attrezzature e di subacquei è piuttosto pesante, ma il gommone, spinto dal potente motore di 250 cavalli, sfreccia sulla superficie piatta del mare, portandoci sul luogo di immersione in appena una ventina di minuti di navigazione.

Sono state programmate due diverse immersioni sul relitto: la prima, “tecnica”, guidata da Giorgio Chiappetta e svolta nell’ambito del corso Trimix 60, porterà Walter Valentini e Marco di Silvio intorno alla profondità di 60 metri, utilizzando una miscela ternaria (composta da ossigeno, azoto ed elio); mentre la seconda, in assetto ricreativo, porterà il mio gruppo, guidato da Sebastiano Polgrossi e formato da altri sei subacquei, alla quota più tranquilla di 52 metri, respirando semplicemente aria normossica.

Arrivati sul punto d’immersione, troviamo un altro gommone di sub che ci ha preceduto e i ragazzi che si trovano a bordo ci dicono che si sono immersi da circa un quarto d’ora. Dobbiamo aspettare in superficie e… sperare che non abbiano smosso troppo il fondo fangoso là sotto.

Balbino (il mitico pescatore di Praia che fa il barcaiolo per il "Dinosub") si tuffa in apnea con solo maschera e pinne e va ad assicurare una cima alla grossa bombola del gas che funge da pedagno e si trova a una decina di metri sotto la superficie, proprio sotto al gommone di chi ci ha preceduto. Il fatto di non essere gli unici sul luogo d’immersione ci costringe ad ormeggiare il nostro gommone facendo fare alla nostra cima una lunga diagonale sino alla bombola, anziché ormeggiarci direttamente sulla sua verticale. La bombola che funge da boa è assicurata da una catena lunga una trentina di metri alla coffa dell’albero di prua della nave e questo consente una discesa sicura nel blu, avendo sempre un punto di riferimento preciso che porta direttamente sul relitto. Questo, soprattutto in caso di corrente, è fondamentale e si rivela utile specialmente per la risalita e per le soste di decompressione. Scesi lungo la catena e arrivati alla coffa, a 37 metri di profondità, si può tranquillamente proseguire la discesa lungo l’albero di maestra della nave, raggiungendo facilmente la coperta del "Lillois".

Poco dopo le undici, il gruppetto dei tre tek divers si immerge con il suo pesante carico di bombole: bibombola 10 + 10 di TMX sulle spalle e decompressive di ossigeno ed EAN 40 sui fianchi. A vederli sembrano degli astronauti o forse dei marziani… e, per calarsi in acqua hanno bisogno di ricorrere all’aiuto delle forti braccia di Balbino, che gli passa l’attrezzatura impedendogli di precipitare nel blu. Gli diamo dieci minuti di vantaggio, per non intralciarci a vicenda, anche se la loro immersione è programmata verso poppa rispetto all’albero di maestra, mentre la nostra si svolgerà verso prua.

Il mio gruppo è composto da 8 subacquei: oltre a me e ad Angela (divenuta ormai la mia compagna abituale anche sott’acqua, oltre che nella vita…), ci sono Sebastiano e Natale, Cristina, altri due sub e Nadia (istruttrice sub e fidanzata di Giorgio) che chiude.

Alle 11:20 metto la testa sott’acqua e comincio pian piano a scendere seguendo la cima di ormeggio che ci porta in diagonale fino alla boa assicurata alla coffa. C’è una leggera e fastidiosa corrente contraria. L’acqua è limpidissima. Scivolo lentamente lungo la cima osservando Angela che mi precede di un metro. Mi sembra tranquilla. In circa tre minuti arriviamo alla coffa dell’albero, guidati dalla catena che dalla boa scende fino ai 37 metri di profondità. La limpidezza dell’acqua ci permette di vedere benissimo la coffa già da parecchi metri di distanza e lo spettacolo è surreale, perché la sovrastruttura è circondata da centinaia di castagnole che nuotano nel blu ed è avvolta da pezzi di grosse reti da strascico che l’adornano come dei festoni. Penso, sorridendo tra me, a quanto i pescatori amano i relitti… Cerco di vedere la sagoma della nave che si trova una quindicina di metri più sotto, ma non si vede nulla. A mano a mano che si scende la visibilità cala vistosamente. Peccato. Oggi non siamo fortunati! I subacquei che ci hanno preceduto hanno sicuramente smosso il fondo e il risultato è che sotto di noi non si vede niente. Guardando verso l’alto, invece, è uno spettacolo fantastico: l’albero della nave si staglia imponente nel blu cobalto e la coffa è contornata da branchi di castagnole, incuriosite dalle bolle dei nostri erogatori.

Tutto intorno a noi è il silenzio, solo il rumore delle nostre bolle scandisce il tempo che scorre inesorabilmente. L’emozione è tanta… Mentre comincio a nuotare lentamente verso prua, seguito da vicino da Angela, penso a quanto sono piccolo quaggiù, schiacciato da una pressione di 6 atmosfere, ad una profondità pari all’altezza di un grattacielo di diciassette piani… Mi sento davvero minuscolo, proiettato in un’altra dimensione, dove pensieri ed emozioni fanno rumore, obbligandoti ad ascoltarti. E’ una sensazione non nuova per me, ma ogni volta è più stupefacente della volta precedente…

 

Mentre mi perdo in questi pensieri e gusto queste sensazioni, mi rendo conto che la visibilità non è particolarmente buona: non più di 7-8 metri. La prima cosa che ci appare chiaramente distinguibile, è il cassero di prua, con le cabine dell’equipaggio in cui si vedono benissimo alcuni lavabi di ceramica, rimasti intatti dopo oltre sessanta anni. Non entriamo, perché il tempo di fondo programmato non ce lo consente, ma ci limitiamo ad osservare per un istante dal portello della cabina, prima di proseguire l’esplorazione verso la prua della nave. Mi sento completamente avvolto dal fascino di questo relitto, che ha davvero molto da raccontare.

Continuiamo a nuotare verso prua, mantenendoci sui 50 metri di profondità e arriviamo sino all’occhio di cubia di sinistra, dal quale pende ancora la grande ancora, tutta incrostata dal coralligeno che l’ha rivestita con lo scorrere del tempo. Sotto la luce dei nostri potenti illuminatori l’ancora si accende di colori brillanti, che vanno dal giallo all’arancione vivo. Attorno alla prua del vapore è tutto un brulicare di delicati anthias rosa, che nuotano impazziti intorno a questi intrusi venuti a disturbare la quiete del profondo del mare. Mi ritorna in mente una frase scritta da un mio amico: “in mare siamo ospiti”, e mi rendo conto, quaggiù, che è proprio vero!

Scendo ancora un paio di metri per ammirare l’imponente prua della nave dal davanti, ma la visibilità, limitata a pochi metri, non mi consente quella visione suggestiva e inquietante che mi è stata descritta. Sono a 52,4 metri di profondità. Sotto c'è solo fango. Meglio risalire. Nuoto sopra alla prua della nave e mi dirigo lungo il suo lato di dritta. Vedo distintamente i grossi argani delle ancore, con le catene parzialmente avvolte. Poi raggiungo il motore che serviva ad azionare il bigo di carico e proseguo, nuotando sopra la stiva che si apre scura sotto di noi. Mi sento attratto da quella apertura, che mi invita a penetrare, a scoprire… ma non c’è tempo!

Guardo per un istante Angela, anche lei attratta dal mistero magnetico di quella stiva profonda e mi dirigo nuovamente verso l’albero di maestra. Sono passati appena 7 minuti da quando abbiamo raggiunto la coperta della nave a 50 metri e il nostro carico di azoto è già considerevole. Il mio computer suona allarmato, ma so che non devo preoccuparmi. E’ tutto sotto controllo. Sebastiano, poco più avanti, ci fa un cenno deciso di risalire e, seppure a malincuore, mi distacco dalla coperta del "Lillois" e inizio una lenta risalita verso la superficie, ricordandomi, d’un tratto, che stiamo facendo un’immersione “ricreativa”. Tecnicamente l’immersione è terminata. Dal momento del distacco dal fondo ha inizio la desaturazione dei tessuti e la lenta e noiosa risalita serve solo ad agevolare questo processo fisiologico. Mi distacco dunque dal fondo all’undicesimo minuto d’immersione e, tenendo l’albero della nave di fronte a me come riferimento verso la superficie, comincio a risalire molto lentamente con Angela al mio fianco. Ho ancora 130 bar nel mio 18 litri e penso, con un po’ di rabbia, che avrei potuto dare almeno una veloce occhiata alla plancia di comando della nave, che si trova appena pochi metri dopo l’albero e si è afflosciata su se stessa, collassando durante l’affondamento.

Dopo pochi metri di risalita, l’acqua torna nuovamente limpida e riesco a vedere distintamente la coffa dell’albero sopra alla mia testa. La supero lentamente e mi posiziono a 30 metri lungo la catena, per effettuare il primo deep stop. Poi, continuo a salire molto lentamente fino ai 20 metri e faccio il mio secondo deep stop e, dopo 15 minuti dal momento del distacco dal fondo, arrivo alla tappa di decompressione dei 6 metri. In realtà, il mio computer mi dà una sosta di soli 5 minuti a 3 metri, ma durante la pianificazione dell’immersione, abbiamo deciso di adottare un profilo molto conservativo e così facciamo. Oltre alla bombola di scorta di EAN 40 con un octopus, calata a 6 metri sotto al gommone, trovo una delle bombole di ossigeno usate in precedenza dai tek divers per la loro decompressione, assicurata alla cima di ormeggio e, facendo a turno con gli altri subacquei, mi ci attacco per fare un buon “lavaggio” dell’azoto accumulato nei tessuti.

Respiro ossigeno puro per un paio di minuti, perché ho intenzione di fare un altro tuffo nel pomeriggio e non è il caso di sovraccaricarmi di azoto. L'immersione termina dopo solo 36 minuti ma, appena messa la testa fuor d’acqua, vedo i tre “tecnici” già sul gommone. A poppa del relitto hanno trovato acqua molto torbida (probabilmente smossa dal gruppo di sub che ci ha preceduti) ed hanno dovuto rinunciare ai 60 metri pianificati, rimanendo solo per pochi minuti sui -54, appena due metri sotto alla nostra quota. Tolgo la maschera, risciacquo il viso nell’acqua e lancio uno sguardo d’intesa alla mia compagna, che mi risponde con un ok ed un largo sorriso che dicono tutto. Poi resto per un momento sdraiato sulla superficie, facendomi cullare dal mare, in attesa che gli altri sub risalgano sul gommone. Rifletto un attimo tra me e me e penso che l’unico motivo per il quale ricorrerei alle miscele ternarie ipossigenate, è per poter avere un tempo di fondo superiore, che mi consenta di gustare maggiormente le cose belle che si possono vedere solo in un’immersione come questa. Per il resto, non rinuncerei mai alla mia “aria profonda”, che mi fa sentire meno "intruso" in questo mondo popolato di pesci, dove il silenzio è il fattore dominante.

Penso che, in fondo, una leggera narcosi (inevitabile a queste profondità) non m’impedisce di godere della gioia e dell’emozione di un incontro ravvicinato con un relitto misterioso e affascinante. Inoltre, respirare semplice aria non mi obbliga ad effettuare complicati cambi di gas, nel rispetto di rigorose tabelle. "Orologio e profondimetro", come diceva il mio maestro tanti anni fa e, soprattutto, esperienza. Sono assolutamente convinto che è solamente l’esperienza che ti consente di calcolare i rischi di un’immersione profonda ad aria e di non superare mai i tuoi limiti. Assorto nei miei pensieri, sul pelo dell’acqua, non mi accorgo di essere l’ultimo a dover risalire. Ma questo mi capita spesso…

Mentre il gommone vola veloce sull’acqua verso la spiaggia di Praia a Mare, ripenso a quella grande coffa avvolta nelle reti da pesca e circondata dalle castagnole, al blu profondo del mare, agli anthias dal delicato colore rosa che nuotano in mezzo alle mie bolle, al silenzio profondo che circonda la nave laggiù, al richiamo delle sue stive misteriose… chiudo gli occhi e rivedo le immagini più belle di questo breve film sottomarino intitolato "Lillois". Un film che ricorderò per sempre.

Dopo meno di mezz’ora, sbarco sulla spiaggia davanti al diving "Dinosub". A chi è rimasto a terra basta guardare l’espressione del mio viso e la luce che brilla nei miei occhi, per capire che è stata un’esperienza fantastica.

Amo profondamente il mare, per tutte le emozioni che sa regalarmi e che diventano mie per sempre!

Marcello ritorna soddisfatto dall'immersione

 appena fatta sul relitto del "Lillois"

Testo di Marcello Polacchini – Foto di Marcello Polacchini e Giorgio Chiappetta  - Informazioni storiche tratte da www.gravitazero.org

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