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di Tecnica & Medicina

 

 

108. DECOMPRESSIONE PER IMMERSIONI IN BASSO FONDALE (COMMERCIAL DIVING)

Relazione del Dott. Pasquale Longobardi (*) presentata al Convegno Internazionale: “Adeguamento delle Tecniche di Decompressione nell’Attività Subacquea Industriale” - RAVENNA - 20 Ottobre 2002

(*) Il Dott. Pasquale Longobardi è il Direttore Sanitario del Centro Iperbarico di Ravenna ed è docente presso la Scuola di Specializzazione in Medicina Subacquea ed Iperbarica dell'Università di Chieti (direttore Prof. P.G. Data).

Mia moglie Angela in decompressione

In Italia nell’immersione professionale a scopo industriale (commercial diving) in basso fondale la decompressione viene effettuata prevalentemente secondo le tabelle U.S. Navy o le tabelle francesi (Travaux en milieu hyperbare) entrambe basate su modelli compartimentali. L’Autore propone questo lavoro, essenzialmente descrittivo, con l’obiettivo di divulgare l’attuale orientamento verso modelli decompressivi basati sul controllo delle bolle, evidenziando le differenze rispetto ai classici modelli compartimentali.

I modelli compartimentali sono definiti ad una fase (fase disciolta) perché sono basati sul concetto che il gas inerte diffonde dai compartimenti nel sangue interamente in forma disciolta e per il calcolo della decompressione è tollerato un rapporto critico prestabilito tra la pressione parziale del gas inerte nei compartimenti di riferimento e la pressione idrostatica; se nei compartimenti si supera la massima saturazione consentita di gas inerte (valore M) vi è sovrasaturazione con innesco di bolle di gas inerte.

Ciò può accadere, per esempio, quando si supera la velocità massima di risalita o si omettono le tappe di decompressione.

        Le bolle, una volta che si sono formate, scatenerebbero la malattia da decompressione con un meccanismo patogenetico essenzialmente ischemico.

Le tabelle U.S. Navy e le tabelle aziendali basate sugli algoritmi del professor Bühlmann o comunque definiti con il termine “Haldane modificato”, sono basate sull’ipotesi che il rispetto delle tabelle evita la formazione delle bolle e, quindi, l’incidente da decompressione.

Questa ipotesi è invalidata dalla rilevazione, seppure occasionale in ambito industriale, di casi di incidenti “immeritati”, cioè dove non è possibile individuare errori nella decompressione.

Nel modello compartimentale è consigliato un distacco rapido dal fondo con risalita direttamente in superficie (immersioni in curva di sicurezza) e nelle immersioni che prevedono decompressione le tappe sono vicine alla superficie, in modo da massimizzare il gradiente della pressione parziale del gas inerte tra i compartimenti ed il sangue venoso favorendo l’eliminazione del gas inerte.

Ciò premesso, attualmente vi è un maggiore orientamento verso modelli orientati sul controllo dell’innesco delle bolle.

Questi modelli sono definiti a due fasi perché presumono che in decompressione una parte del gas (dal 10% in su) diffonde dai compartimenti verso delle microbolle preesistenti nell’organismo (fase libera) mentre il rimanente gas inerte si dissolve nel sangue venoso (fase disciolta).

Pertanto è necessario calcolare la decompressione in modo che il gradiente tra la pressione parziale del gas inerte nei compartimenti e la pressione idrostatica non superi mai un valore critico per l’innesco della formazione di bolle con dimensioni superiori a quanto pianificato prima dell’immersione.

Difatti l’ipotesi è che la probabilità dell’incidente da decompressione (pDCI) aumenta in misura direttamente proporzionale con l’aumentare del raggio della bolla.

La pDCI supera il 3% (per immersioni quadre le tabelle U.S. Navy hanno, in media, un rischio del 2,2%) quando il raggio delle bolle supera i 60 micron nelle immersioni entro i 40 metri di profondità o i 40 micron nelle immersioni oltre i 40 metri: questo supporta l’ovvia evidenza che nelle immersioni con maggior stress decompressivo aumenta la probabilità che si verifichi un incidente da decompressione.

 Io e mia moglie Angela in decompressione in libera con le nostre tabelle

Ricapitolando: secondo il modello compartimentale classico (ad una fase) in risalita tutto il gas inerte diffonde disciolto nel sangue e, salvo errori nella decompressione, non è previsto il passaggio di gas in fase libera (cioè nelle microbolle preesistenti), invece secondo i modelli basati sul controllo delle bolle (a due fasi) in risalita almeno una parte del gas inerte diffonde sempre in fase libera.

Da questo diverso approccio derivano diverse procedure di decompressione: se concordiamo con l’importanza di evitare l’innesco e la crescita incontrollata delle bolle, ne deriva che il distacco dal fondo deve essere graduale ed emerge la necessità di calcolare una o più soste di sicurezza da posizionare prima della profondità dove è prevista la diffusione di un volume critico di gas inerte dai compartimenti al sangue venoso (gradiente critico).

Va precisato che le soste di sicurezza vanno eseguite alla giusta profondità: ad una quota eccessivamente ed inutilmente profonda non c’è un gradiente sufficiente per favorire la liberazione del gas inerte dai compartimenti; ad una quota troppo superficiale le soste non prevengono la formazione delle bolle.

I modelli basati sul controllo delle bolle suppongono che a livello ematico sono sempre presenti, anche a pressione atmosferica normale, microbolle di dimensioni inferiori ai 10 micron visto che oltre tali dimensioni le bolle sono filtrate dal microcircolo polmonare, a meno che non sia presente uno shunt destro – sinistro (che è un passaggio anomalo di sangue venoso ricco di bolle nel sangue arterioso senza che le bolle siano state filtrate a livello polmonare, di solito lo shunt è a livello cardiaco per la presenza di un setto interatriale pervio oppure può avvenire a livello polmonare).

Le microbolle si formano per cavitazione a livello delle turbolenze nel flusso ematico; per microtraumi dei capillari; per tribonuclezione dovuta alla differenza di pressione tra il gas disciolto nel sangue e quello presente nei tessuti circostanti oppure sono il residuo di precedenti immersioni. Per quest’ultimo aspetto, il modello compartimentale prevede che dopo un’immersione i compartimenti si desaturano completamente dal gas inerte in dodici ore e non è contemplata la presenza di microbolle circolanti nel sangue in condizioni ordinarie; il modello per il controllo delle bolle invece prevede che dopo un’immersione il “patrimonio” di microbolle, presente nell’organismo in condizioni basali, si rigenera in un tempo variabile da due a ventuno giorni.

L’esistenza delle microbolle è criticata perché esse non sono mai state riscontrate in vivo, inoltre il principale modello per il controllo delle bolle, definito Varying Permeability Model (VPM), è stato criticato tra l’altro perché basato sullo studio di microbolle rilevate solo in studi su gelatina e non in fase acquosa; questo problema appare comunque risolto perché una successiva elaborazione del modello, definita Reduced Gradient Bubble Model (RGBM), è basata sullo studio delle microbolle in fase acquosa.

La reale esistenza delle microbolle in condizioni reali è spiegabile solo con studi di ingegneria dei fluidi. Secondo questi studi le microbolle di gas inerte sono rivestite e stabilizzate da molecole superficiali attive (surfattante), costituite da una estremità idrofilica (proteine) rivolta verso il

plasma o i liquidi interstiziali ed una estremità idrofobica (fosfolipidi) rivolta verso il gas inerte, cioè verso la superficie della bolla (1).

Le molecole di surfattante sono unite tra di loro da legami elettrostatici deboli.

Durante la discesa, con l’aumentare della pressione idrostatica, le molecole di surfattante vengono compresse l’una contro l’altra; si riduce il raggio della bolla ed aumenta la pressione interna alla bolla (legge di Laplace: la pressione interna di una bolla è inversamente proporzionale al raggio); aumenta lo spessore dell’interfaccia gas inerte – liquido e si riducono gli scambi gassosi: in definitiva la microbolla si stabilizza fino a diventare impermeabile alla diffusione del gas e quindi più problematica ai fini della decompressione.

Durante la discesa alcune molecole di surfattante, oltre una certa compressione e quando viene superata la loro capacità elastica (isteresi), “saltano” via dall’interfaccia e, secondo l’ipotesi di Kunkle, si perdono nel liquido circostante oppure, secondo l’ipotesi di Yount, rimangono legate con legami elettrostatici in uno strato superficiale della bolla stessa (reservoir).

Nei giorni successivi all’immersione (2-21 gg.) il surfattante sarà recuperato nell’interfaccia gas inerte – liquido e la microbolla ritornerà alla sua dimensione originale ma con una minore elasticità (effetto “palla da biliardo”).

La stabilizzazione delle microbolle in fase di discesa è direttamente proporzionale al gradiente della pressione idrostatica: più rapida è la discesa, maggiore è la riduzione del raggio della bolla, più questa sarà stabile così in risalita le soste di sicurezza saranno meno profonde ed il tempo di decompressione sarà ridotto.

Se invece la discesa è lenta, il gradiente di pressione idrostatica non è sufficiente per una significativa riduzione del raggio della bolla: più il raggio sarà grande, minore sarà la pressione interna della bolla e maggiore la quantità di gas inerte che diffonderà dai tessuti nella bolla.

La bolla, una volta innescata, aumenterà di dimensioni durante la risalita, si potrà dividere in più bolle (visualizzate strumentalmente con l’aspetto della bolla “madre” ed un rosario di bolle più piccole) che spesso confluiscono con altre bolle: in definitiva aumenta la probabilità di incidente da decompressione.

Mentre il modello basato sul controllo delle bolle auspica, quindi, una discesa rapida e diretta verso la massima profondità pianificata, il modello compartimentale classico prevede una velocità di discesa non superiore a 23 metri al minuto, ciò per evitare che si instauri un gradiente che acceleri la saturazione dei compartimenti veloci e medio – lenti (2).

Un’ulteriore critica al modello per il controllo delle bolle è basata sulla constatazione fisica (legge di Laplace) che una nanobolla del raggio di 10 nm avrebbe una pressione interna di 140 bar circa e dovrebbe rapidamente dissolversi.

Questo dubbio è reale solo se si assume che la bolla abbia una forma sferica.

Recentemente, però, studi di ingegneria dei fluidi (3) hanno evidenziato la presenza di bolle schiacciate con un aspetto ellittico sull’interfaccia solido-fluido (ipotizziamo che ciò valga anche per l’endotelio).

In tal caso il raggio della nanobolla aumenta, la pressione interna si riduce e la nanobolla si stabilizza. Riprendendo l’esempio di prima: una nanobolla sferica con un raggio di 10 nm avrebbe una pressione interna di 140 bar incompatibile con una persistenza duratura ma se ipotizziamo la stessa bolla schiacciata contro l’endotelio con il raggio aumentato, per esempio, a 100 nm allora la pressione interna scenderà a 14 bar ed essa sarà più stabile nel tempo.

In merito al meccanismo di formazione delle microbolle, se ipotizziamo che i nuclei gassosi (o microbolle) originano a livello dell’interstizio tra due vicine cellule endoteliali e che l’interfaccia liquido – gas sia concavo invece che convesso allora, in base alle leggi fisiche, risulta che la pressione del gas all’interno del nucleo gassoso è inferiore rispetto a quella del gas disciolto nel liquido circostante, quindi il gas inerte tenderà a diffondere dal sangue e dai tessuti verso l’interno del nucleo stesso.

Il nucleo rimane stabile fin quando la sua superficie resta concava poi, quando la pressione del gas interno destabilizza la superficie e questa diventa convessa, la bolla crescerà rimanendo ancora per un po’ stabile fin quando resta schiacciata lungo la parete endoteliale.

Comunque quando la diffusione del gas inerte dai compartimenti al sangue supera il volume critico per l’innesco delle bolle, il gas entra abbondantemente in fase libera e si ha il distacco della bolla dalla parete endoteliale; nel sangue venoso la bolla assume istantaneamente la forma sferica e, da questo momento, aumenta la probabilità di un incidente da decompressione.

Lo studio citato supporta un’importanza prioritaria dei nuclei interstiziali mentre il surfattante gioca un ruolo secondario di stabilizzazione dell’interfaccia gas-liquido: a concentrazioni maggiori di surfattante l’interfaccia rimane concavo più a lungo, il nucleo è più stabile ed aumenta il gradiente necessario per innescare la liberazione delle bolle nel sangue venoso.

Il meccanismo di formazione delle bolle, prima sintetizzato, consente di evidenziare un’altra differenza significativa tra il modello per il controllo delle bolle ed il modello compartimentale.

Quest’ultimo è essenzialmente un modello perfusionale che prevede un tempo di diffusione pressoché virtuale. Un’ipotesi da supportare sperimentalmente, è che il gas inerte nel momento in cui diffonde dai tessuti nel sangue attraverso la parete endoteliale, finisca nei nuclei interstiziali (per il fatto che la pressione del gas all’interno dei nuclei è inferiore rispetto all’esterno, grazie all’interfaccia gas-liquido concava) oppure nelle microbolle adese alla superficie endoteliale.

Se ciò è verosimile, allora il tempo di diffusione del gas inerte dai compartimenti al sangue venoso non sarebbe più virtuale e verrebbero falsati i tempi di emisaturazione dei compartimenti sui quali è essenzialmente basato il calcolo della decompressione nel modello compartimentale.

Ritornando all’analisi del modello per il controllo delle bolle, la ricerca ha evidenziato che il picco delle bolle si manifesta dai 20 minuti fino alle 2 ore dopo l’emersione, poi decresce per ridursi significativamente dopo le quattro ore: ne consegue che un intervallo di superficie inferiore alle due ore comporta uno stress decompressivo maggiore nell’immersione ripetitiva.

In generale nelle immersioni successive alla prima è particolarmente consigliata la discesa rapida, in modo da creare un gradiente di pressione idrostatica capace di ridurre significativamente il raggio delle bolle di gas inerte residuate dopo la prima immersione.

Un interessante corollario riguarda la frequenza delle immersioni: un subacqueo che si immerge quotidianamente (cinque giorni su sette) ed esegue costantemente discese rapide e dirette verso la massima profondità pianificata, ha un “patrimonio” di microbolle in circolo di quantità e dimensioni ridotte e, a parità di stress decompressivo, ha una probabilità significativamente inferiore di subire un incidente da decompressione rispetto ad un subacqueo che si immerge saltuariamente (la differenza è significativa se c’è un intervallo superiore

a 21 giorni tra due immersioni).

Per il calcolo del profilo di decompressione è importante anche la scelta della miscela respiratoria appropriata. Nell’immersione in basso fondale in genere viene utilizzata l’aria comunque nel caso di immersione con miscela contenete elio l’orientamento attuale, comunque suggerito dall’Autore, è di utilizzare sul fondo una miscela respiratoria con una pressione parziale di 1,2 – 1,4 bar di ossigeno; se invece dell’Eliox si utilizza una miscela trimix è consigliata una pressione parziale di 2,4 - 2,5 bar di azoto che corrisponde ad un equivalente narcotico in aria di circa 21 metri (20 – 21.6 mt) e per il resto elio.

È altresì fondamentale calcolare che la pressione parziale dell’ossigeno nella miscela respiratoria rimanga sempre superiore almeno ai 0,5 bar alle quote di cambio della miscela decompressiva o alle soste profonde.

E’ sconsigliato l’uso di miscele respiratorie con pressione parziale di ossigeno inferiore ai parametri indicati, sul fondo o durante la risalita, perché si riduce la tolleranza dell’organismo verso errori di decompressione.

È altresì sconsigliato l’utilizzo di una pressione parziale di ossigeno superiore ad 1,6 bar nella miscela respiratoria decompressiva perché l’ossigeno di per sé ha un discreto peso molecolare ed è possibile la formazione di “bolle di ossigeno” quando l’offerta supera il fabbisogno del metabolismo cellulare.

Inoltre l’eccesso di ossigeno facilita la produzione di radicali liberi, altamente reattivi, in quantità superiore alla capacità di compenso dei sistemi antiossidanti intra ed extracellulari e ciò comporta nell’immediato una vasocostrizione che riduce l’eliminazione del gas inerte e, nel tempo, un danno ossidativo all’endotelio vasale che è l’interfaccia fondamentale nei processi di scambio gassoso tra i tessuti ed il sangue venoso oltre ad avere un ruolo essenziale nella genesi dell’incidente da decompressione.

L’ipotesi sulla quale si sta lavorando è che una pressione parziale elevata di elio ed una pressione parziale di ossigeno nei limiti indicati per la miscela di fondo (1,2 - 1,4 bar) abbiano invece un effetto protettivo sulla barriera endoteliale, tramite meccanismi che sono ancora da verificare: questo supporta favorevolmente la consuetudine nell’immersione industriale di utilizzare l’Eliox.

In merito all’accessibilità ai modelli basati sul controllo delle bolle, l’ultima versione del Varying Permeability Model (VPM) è utilizzata dal software V-Planner acquisibile tramite Internet ad un costo contenuto. In origine (1993) è stato essenzialmente studiato da un gruppo di ricercatori e subacquei tecnici che hanno cooperato volontariamente attraverso Internet ed era un modello elaborato per immersioni con miscela gassosa contenente elio fino ad una profondità di 70 metri.

       In parallelo si è sviluppato il Reduced Gradient Bubble Model (RGBM), elaborato da Bruce R. Wienke dei Los Alamos Laboratories (USA), presentato nel 1998 ed attualmente commercializzato in vari software.

Nel software Abyss (distribuito in Italia dalla HdueO di Gallarate – VA) è utilizzabile esclusivamente per il calcolo delle immersioni con miscela respiratoria contenete elio e vi è anche una versione per uso professionale.

La NAUI ha invece acquisito l’esclusiva delle tabelle di decompressione con aria definite NAUI-RGBM. Per quanto non utilizzati nell’attività subacquea industriale, si segnala solo per informazione che anche alcuni computer subacquei (SUUNTO) hanno dei software basati su una variante molto semplificata del modello RGBM che si limita ad introdurre un fattore conservativo, definito χ (csi), il quale modifica la tensione del gas inerte stimata nel compartimento di riferimento (Go) in base ad un parametro scelto dal programmatore, per esempio: minore è l’intervallo di superficie o maggiore la profondità dell’immersione successiva, più sono penalizzate le immersioni ripetitive (5).

Terminata l’analisi dei modelli decompressivi, mi sia consentito precisare che l’esperienza clinica ha evidenziato che purtroppo non c’è una stretta correlazione tra modelli fisiologici di decompressione e patologia decompressiva.

Un profilo di decompressione accurato non garantisce contro l’incidente da decompressione. L’attuale orientamento (4) propende per una patogenesi basata sul riconoscimento della bolla da parte del sistema immunitario e del complemento.

L’esatto meccanismo patogenetico non è chiaro ma, sulla base di studi di fisiopatologia dell’ossigeno iperbarico, si può ipotizzare quanto segue.

La bolla può danneggiare meccanicamente l’endotelio oppure essere “rivestita” dal complemento (è dimostrato un ruolo della componente C5a), dal fattore di attivazione piastrinica e dalle piastrine, dai lipoperossidi e dalla xantina ossidasi.

Vi sarebbe una prima fase di adesione della bolla “rivestita” all’endotelio tramite legami elettrostatici deboli, mediata dalle selectine.

In questa fase si ha la produzione, catalizzata dalla xantina ossidasi, di mediatori come l’ossido nitrico che agisce sulle guanilato ciclasi di membrana e citoplasmatica determinando la produzione del ciclico GMP e, in definitiva, l’espressione delle β2 integrine (una delle molecole di adesione intercellulare, ICAM); il legame della bolla “rivestita” all’endotelio da labile diventa così stabile ed inizia il processo di diapedesi leucocitaria attraverso la parete endoteliale verso il tessuto circostante, qui progredisce il processo infiammatorio che può portare alla manifestazione dei sintomi e segni tipici dell’incidente da decompressione.


 Una lunga decompressione in libera nel blu può essere noiosa. Passiamo il tempo ripassando mentalmente le nostre tabelle...

La somministrazione di liquidi ed in particolare dell’ossigeno normobarico subito dopo l’esordio dell’incidente da decompressione favorisce la mancata attivazione della guanilato ciclasi di membrana da parte dell’ossido nitrico, forse per un meccanismo di competizione dell’ossigeno per lo stesso sito. Ciò sarebbe sufficiente per rallentare il processo di espressione delle ICAM, la fissazione stabile della bolla “rivestita” e la diapedesi leucocitaria.

Contemporaneamente l’ossigeno accelera l’eliminazione del gas inerte, così l’evoluzione ed espressione della sintomatologia viene bloccata in fase iniziale. L’ipotesi ha già ricevuto alcune conferme sperimentali ma necessita di essere ulteriormente convalidata (7).

In conclusione, l’Autore è consapevole che molte delle ipotesi tipiche dei modelli per il controllo delle bolle necessitano di conferme sperimentali; molti dei suggerimenti di tecnica decompressiva presentati come innovativi nella letteratura anglosassone, in realtà sono stati già applicati in passato dai corallari e sono abitualmente adottati nell’attività subacquea industriale italiana. Pur senza averne elaborato gli aspetti teorici, l’esperienza li ha indotti ad adottare empiricamente alcuni accorgimenti per aumentare la sicurezza dell’immersione: scelta delle miscele respiratorie con le pressioni parziali di ossigeno e gas inerte sopra riportate e, meglio ancora, utilizzo prioritario dell’Eliox; discesa rapida; distacco lento dal fondo; tappe profonde; risalita molto più lenta negli ultimi 15 metri (3 - 5 metri al minuto) e poi, per i corallari, negli ultimi metri palmo dopo palmo (30 centimetri al minuto). Per contrasto e a solo scopo informativo si segnala che nell’attività subacquea ricreativa anche i più recenti computer subacquei consentono una velocità di risalita di 7 metri al minuto negli ultimi 10 metri.

Qualora a livello aziendale si preferisca l’utilizzo per la decompressione le tabelle U.S. Navy o comunque basate su un modello compartimentale, seguono alcuni sintetici suggerimenti pratici mutuati dalla ricerca sui modelli per il controllo delle bolle: discesa rapida compatibilmente con la capacità di compensazione dell’orecchio medio e di tolleranza alla narcosi o quantomeno diretta verso la massima profondità pianificata senza soste intermedie.

Il distacco dal fondo deve essere graduale.

Durante la risalita inserire delle soste di sicurezza profonde, queste possono essere calcolate tramite alcuni metodi empirici.

Il metodo ideato dal ricercatore Richard Pyle prevede di inserire una sosta di 2 minuti ad una profondità che è la media tra la massima profondità (o la sosta precedente) e la prima tappa prevista dalla tabella di decompressione: per esempio per una immersione alla profondità di 40 metri con una tappa di decompressione a 5 metri, le soste di sicurezza saranno a 23 metri, 14 metri e quindi la prevista tappa a 5 metri.

Un altro metodo per il calcolo delle soste di sicurezza è quello adottato dal Nucleo Sommozzatori dei Vigili del Fuoco: la prima sosta decompressiva è posta alla metà della massima pressione totale raggiunta in immersione, per esempio per un’immersione a 40 metri la sosta sarà a 15 metri (5 bar/2 = 2,5 bar).

Didatticamente i subacquei VV.F. calcolano la sosta di decompressione con la formula: (profondità massima/2) – 5. Dopo questa prima sosta profonda i subacquei VV.F. risalgono riducendo la

velocità di risalita a 3 metri al minuto (mentre dal fondo alla sosta profonda risalgono alla abituale velocità di 10 metri/minuto).

È da precisare che i subacquei VV.F., per convenzione interna, calcolano come tempo di fondo il tempo che intercorre tra l’inizio immersione e l’arrivo alla prima tappa prevista dalla tabella U.S. Navy o comunque, nelle immersioni in curva di sicurezza, alla tappa di sicurezza effettuata per consuetudine alla profondità di 4,5 metri; ciò comporta che la sosta di sicurezza ed il successivo rallentamento nella velocità di risalita decurtano il reale tempo trascorso alla massima profondità.

A titolo informativo si riporta che il Nucleo Sommozzatori dei Vigili del Fuoco ha testato i vari computer subacquei in commercio ed ha selezionato il modello con l’algoritmo che meglio soddisfa le loro esigenze operative (ZH-L18 ADT 20), inoltre ha avviato una serie di sperimentazioni in camera iperbarica ed in mare, tuttora in corso, dalle quali sono risultati numerosi accorgimenti pratici per implementare l’utilizzo del computer e, principalmente, per aumentare la sicurezza dell’immersione.

 

Dott. Pasquale Longobardi

Centro Iperbarico

via A. Torre, 3

48100 Ravenna

E-mail: iperoxy@libero.it

Cenni di bibliografia

·     N. Gaskins, RD Vann, D. Needham ed altri, Atti UHMS Annual Meeting 2001;

·     Manuale U.S. Navy, edizione 1996, paragrafo 5-4.5.1;

·     J. W. Tyrrell, P. Attard . Phys. Rev. Lett. 87, 176104, 2001;

·    Francesco Clai, tesi Scuola di specializzazione in Medicina del Nuoto e delle Attività Subacquee - Università di Chieti, relatore: Dott. P. Longobardi (direttore: Prof. P. G. Data), anno 1999-2000;

·     Bruce R. Wienke, “Technical Diving in Depth”, Best Publishing Company, 2002 (book no. B1035)

·     Corrado Bonuccelli, “L’immersione tecnica con miscela”, Edizioni La Mandragora, 2001.

·     J. M. Martin, S.R. Thom “Vascular Leukocyte Sequestration in Decompression Sickness and Prophylactic Hyperbaric Oxygen Therapy in Rats” in Aviation, Space and Environmental Medicine vol. 73, No 6, June 2002.

(*) Il Dott. Pasquale Longobardi è il Direttore Sanitario del Centro Iperbarico di Ravenna ed è docente presso la Scuola di Specializzazione in Medicina Subacquea ed Iperbarica dell'Università di Chieti (direttore Prof. P.G. Data).

L'importanza fondamentale della velocità di discesa

I modelli decompressivi basati sul controllo delle bolle, detti a doppia fase (VPM o RGBM), finora hanno dimostrato di funzionare e di non presentare molti problemi. Sappiamo che, secondo tali modelli, durante la risalita solo il 10% dell’azoto che si libera dai tessuti passa nelle bolle che già sono in circolo, mentre l’altro 90% arriva ai polmoni come gas disciolto nel sangue e lì viene tranquillamente eliminato.
Ora immaginiamo la bolla come una finestra e il tessuto come una stanza: in risalita è un po’ come se volessimo cambiare aria nella stanza aprendo una finestra. Se la finestra (bolla) è stretta passa meno gas e la bolla rimane piccola e stabile, se la finestra è larga il gas entra più facilmente e la bolla cresce. In termini un po’ più tecnici, le dimensioni delle bolle sul fondo dipendono da quanto sono state schiacciate durante la discesa, se questa è veloce verso il fondo (circa 15-20 metri al minuto) le bolle saranno pressate e spremute finché rimane una bolla piccola e stabile che durante la risalita tenderà a non incamerare altro azoto.
Se invece, per esempio, scendiamo rapidamente fino a 20 metri e poi lentamente verso i 40 metri, la bolla viene schiacciata solo nella prima fase di discesa rapida, poi viene un po’ rimpicciolita per il fatto che lentamente aumenta la pressione esterna perché continuiamo a scendere, ma contemporaneamente essa si ingrandisce un po’ perché entra l’azoto che sta riempiendo i tessuti circostanti la bolla. È un tira-e-molla per il quale la bolla in sostanza non cambia di molto le proprie dimensioni. In termini tecnici: se si scende lentamente, sul fondo la riduzione delle dimensioni della bolla non dipende dalla somma di tutti i piccoli aumenti di pressione (per esempio da 0 a 20 metri, poi da 20 a 25, da 25 a 33, ecc.) ma conta solo la fase più rapida (da 0 a 20 metri).
Per quanto riguarda il rischio dell’ebbrezza da profondità (narcosi da azoto) va ricordato che l’importanza di mantenere le bolle piccole si ha nelle immersioni avanzate, cioè profonde oltre 30-40 metri, ripetitive e ripetute per più giorni. Queste immersioni dovrebbero essere riservate a subacquei allenati, con almeno 30-40 immersioni per anno, che quindi sanno come prevenire e gestire l’ebbrezza.
Nei programmi di decompressione basati sul controllo delle bolle tutti i calcoli sono fatti presupponendo una velocità di discesa tra i 18 ed i 23 metri al minuto, in realtà però spesso i subacquei scendono verso il fondo più lentamente ed il ritardo che c’è tra la velocità teorica e quella reale viene definito "effetto Maiken". Questo ricercatore con i suoi studi ribadisce che, in un subacqueo che scende lentamente, sul fondo la bolla è più grande di quanto previsto teoricamente e quindi in risalita essa cresce di più di quanto calcolato a tavolino. Uno dei tanti vantaggi pratici della discesa rapida si ha nelle immersioni ripetitive. Se nella prima immersione della giornata arrivo rapidamente sul fondo e quindi schiaccio le bolle preesistenti, poi la mia seconda immersione, spesso meno profonda e più lunga, sarà più sicura perché le bolle in circolo rimangono piccole e stabili.
Attualmente, eccetto alcuni, molti computer non applicano ancora i modelli basati sul controllo della formazione e sviluppo delle bolle, conosciuti con nomi come modello a permeabilità variabile (VPM, Varying Permeability Model), modello con gradiente per la riduzione delle bolle (RBGM, Reduced Bubble Gradient Model) in parte inserito nel software Abyss, modello sulla dinamica delle bolle tessutali (TBDM, Tissue Bubble Dynamics Model) ed altri.

Questi modelli decompressivi basati sul controllo delle bolle, come si diceva all’inizio, prevedono che in decompressione solo il 90% dell’azoto contenuto nei tessuti diffonde nel sangue per essere eliminato tranquillamente a livello dei polmoni, mentre un altro 10% penetra nelle bolle che sono sempre in circolo e l’attenzione viene concentrata proprio su questa piccola parte.
Perciò, un consiglio utile è quello di aumentare la sicurezza nelle immersioni più impegnative, seguendo alcune semplici regole: evitare qualsiasi sforzo subito prima e dopo l’immersione, come scendere e salire la scaletta della barca indossando tutta l’attrezzatura, perché questo causa una “spruzzatina” di bolle. Inoltre in decompressione è utile un po’ di movimento, basta anche solo pinneggiare, ciò serve per facilitare la circolazione del sangue nei tessuti e quindi l’eliminazione dell’azoto assimilato.

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